Nick Reiner è uno di quei “figli di Hollywood” che per anni hanno provato a restare ai margini della celebrità ereditaria. Non attore da copertina, ma autore: il suo nome emerge soprattutto come co-sceneggiatore di La rivoluzione di Charlie, film diretto dal padre Rob Reiner e nato da una materia autobiografica delicatissima, la dipendenza. È proprio lì che Nick, più che “figlio di”, diventa personaggio pubblico per scelta, raccontando in prima persona il lato meno glamour di Los Angeles: la riabilitazione, la strada, la vergogna e la fatica di tornare a casa. Nato a Los Angeles nel 1993, Nick viene descritto dal New Yorker come il “figlio di mezzo” di Rob e Michele Reiner: quello che, da ragazzino, arriva persino a far naufragare (con un voto familiare) l'idea del padre di candidarsi a governatore della California, per paura che la vita blindata dalla scorta gli impedisca una vita normale. È un dettaglio minuscolo ma rivelatore: in quella famiglia molto esposta, Nick rivendica presto il bisogno di quotidianità, poi arriva la frattura. Nelle interviste rilasciate dopo l'uscita del “film di famiglia”, Nick racconta un'escalation iniziata nell'adolescenza con ripetuti ricoveri in strutture di recupero (fino a 17 volte, secondo alcune fonti) e periodi di vita da senzatetto sulle strade di diversi Stati. A People aveva descritto in modo asciutto dove l'aveva portato l'ostinazione a “fare a modo suo”: notti e settimane in strada, rifugi, la sensazione di scivolare fuori dal proprio stesso cognome. Il punto di svolta è la scrittura. In riabilitazione Nick conosce Matt Elisofon: insieme prendono appunti, raccolgono storie, provano a trasformare quell'esperienza in racconto. Per Nick non è un'autobiografia trasposta sullo schermo, ma un collage di situazioni viste e vissute in quel mondo. È l'idea che regge il film: mostrare la dipendenza come quotidianità (test antidroga, ricadute, compromessi), non come parabola edificante. Quando il film arriva al Toronto Film Festival nel 2015, il Los Angeles Times racconta la famiglia riunita a cena dopo la première, nel giorno del ventiduesimo compleanno di Nick: sul tavolo non c'è una “storia di rinascita” da vendere, ma una vulnerabilità esibita quasi contro le regole non scritte dell'industria. Reiner padre ammette che girare il film ha riaperto ferite. Nick dice, senza pose, che non era sicuro di volerlo fare. Il New Yorker fa un passo oltre la promozione e mette a fuoco la dinamica più interessante: Nick come “caso clinico” che costringe il padre, regista abituato a dirigere attori diversi in modi diversi, ad ammettere un errore di metodo con il figlio. Nick, dal canto suo, sintetizza così l'effetto del lavoro insieme: vedere il padre “nel suo elemento”, mentre fa ciò che ama, glielo ha fatto comprendere meglio. Oggi il suo nome è tornato sulle cronache per le ragioni più drammatiche: è stato arrestato per la morte dei genitori e si trova in custodia cautelare con una cauzione fissata a 4 milioni di dollari. Un passaggio che, per ora, appartiene alla sfera giudiziaria e non chiude, né spiega, la persona. Ma rende ancora più centrale l'unica cosa che Nick ha davvero consegnato al pubblico in modo diretto: la testimonianza, ripetuta in interviste diverse, di quanto la dipendenza possa diventare una biografia parallela, e di quanto sia fragile il confine tra “starci dentro” e “finire fuori strada”.