Roma, 18 dic. (Adnkronos Salute) - "La terapia chemio-free nel linfoma mantellare è fattibile, sicuramente è il futuro e ci auguriamo che questo tipo di terapia sia presto disponibile per tutti questi pazienti, perché attualmente vengono ancora trattati con la chemio-immunoterapia". Così Enrico Derenzini, direttore Divisione Oncoematologia, Ieo-Istituto europeo di oncologia di Milano e professore associato di Ematologia all'università Statale di Milano, commenta i risultati degli studi Echo e Traverse presentati all'Ash, il Congresso della Società americana di ematologia che si è svolto a Orlando. ( VIDEO ) "Il linfoma mantellare - spiega l'oncologo - è una sindrome linfoproliferativa, un tipo di linfoma non Hodgkin che colpisce i linfociti B maturi. E' un linfoma tipico dell'adulto anziano con un'età media di incidenza intorno ai 70 anni, anche se in certi casi può colpire anche persone più giovani. Come tutti i linfomi si manifesta con ingrandimento dei linfonodi, per cui ci si può accorgere di avere un linfonodo ingrossato che si palpa, specialmente se il linfonodo è superficiale, ma può coinvolgere anche il midollo osseo dando talvolta sindrome leucemica, quindi linfociti B circolanti nel sangue periferico e in organi di vario tipo tra cui, in prima istanza, il tratto gastrointestinale. Infatti è molto facile ritrovarlo sia nell'intestino che nello stomaco con esami istologici fatti in corso di endoscopia". Tradizionalmente, ricorda Derenzini, "il linfoma mantellare si cura con un approccio di tipo chemio-immunoterapico. Fino ad oggi è stato poco curabile: era facile indurre remissioni complete, ma spesso queste remissioni complete non duravano, con una storia naturale di malattia caratterizzata da molteplici recidive. I linfomi mantellari - illustra l'esperto - possono essere distinti con score", valori "di rischio, a seconda di alcuni fattori. In primis un rate di proliferazione cellulare aumentata, quindi la presenza di mutazioni di P53 che è un gene molto importante che regola la risposta ai farmaci e ai chemioterapici in particolare, e anche alcune varietà istologiche particolari come la varietà pleomorfa o la varietà blastoide che si associano a cattiva prognosi". Lo studio Echo "di fase 3, randomizzato, presentato all'Ash - descrive l'oncologo - confrontava una terapia standard, un'immunoterapia (rituximab) associata a un chemioterapico (bendamustina), nel paziente con età maggiore o uguale a 65 anni. Questo standard veniva confrontato con lo stesso backbone (rituximab e bendamustina) associato o meno a un inibitore di Btk (Bruton tyrosine kinase) che è una chinasi attiva, essenziale per la proliferazione cellulare del linfoma mantellare. L'inibitore di Btk era acalabrutinib. Lo studio ha quindi confrontato la terapia standard con o senza acalabrutinib". I risultati, con un follow up arrivato a circa 50 mesi, "sono importanti - riferisce Derenzini - Hanno confermato la superiorità del trattamento sperimentale con acalabrutinib in termini di progression free survival, ma hanno anche evidenziato un altro dato molto importante, ovvero che la terapia combinata con acalabrutinib, a partire dalla prima linea, riduce di circa il 24% il rischio che il paziente faccia poi una terapia di terza linea. Questo significa che c'è un impatto tangibile sulla storia naturale di questa malattia". I dati "confermano il vantaggio che si ha nell'abbinare fin dalla prima linea di terapia l'inibitore di Btk - rimarca - Questo studio infatti prevedeva un crossover: i pazienti che non facevano acalabrutinib, quindi randomizzati al braccio di terapia standard, potevano riceverlo alla progressione. I dati ci dicono che utilizzarlo fin dall'inizio comporta un vantaggio che ci si porta dietro, nel lungo termine, la riduzione del rischio di dover fare almeno tre linee di trattamento". All'ultimo Ash sono stati presentati anche risultati preliminari dello studio Traverse, "di fase 2, che ha analizzato una coorte di pazienti non precedentemente trattati, quindi sottoposti a un regime di terapia completamente chemio-free alla diagnosi - prosegue Derenzini - Questo prevedeva una prima fase di induzione composta da 3 farmaci: rituximab, acalabrutinib come inibitore di Btk, associato a un inibitore di Bcl2, venetoclax. Alla fine di questa fase di induzione, in presenza di malattia minima residua (Mrd) negativa, quindi di remissione completa, i pazienti erano randomizzati all'osservazione oppure a proseguire il solo acalabrutinib. Nello studio Traverse circa il 20% dei pazienti presentava alla diagnosi una mutazione del gene P53, che come sappiamo si associa a una cattiva prognosi dopo chemio-immunoterapia standard. Ebbene, con questo regime di terapia questi pazienti hanno avuto un tasso di remissioni complete assolutamente sovrapponibile a quello dei pazienti senza mutazione di P53". L'endpoint primario di questo studio "era il tasso di remissioni complete con malattia minima residua negativa e ha dato risultati assolutamente promettenti, con un overall response rate superiore al 90% - riporta l'esperto - Si tratta di risultati molto preliminari, in quanto la grande maggioranza dei pazienti, al momento dell'analisi, era ancora durante il trattamento di induzione, ma con più del 50% di remissioni complete, praticamente tutte Mrd negative. Solo 12 pazienti al momento dell'analisi avevano completato tutta la fase di induzione, e tutti e 12 erano in remissione completa Mrd negativa. L'abbinamento di immunoterapia con rituximab, inibitore di Btk (acalabrutinib) e inibitore di Bcl2 (venetoclax) - conclude - può essere estremamente efficace anche in pazienti che fino a oggi sono stati classificati come a prognosi cattiva a seguito di trattamenti standard".