Il Tempo prosegue la sua riflessione sui grandi scenari economici. E dopo la conversazione della scorsa settimana con Nicola Rossi, vi propone oggi un'ampia intervista con Mario Cimoli, economista, docente presso UAM-X Mexico City (Universidad Autónoma Metropolitana-Xochimilco), una lunga carriera accademica e di impegno culturale tra Italia e America Latina. Ne viene fuori una disamina lucida e spietata sugli errori dell'Ue, sui rischio di colpire l'agricoltura italiana, sul disorientamento della sinistra, sulle caricature di comodo realizzate ai danni di Donald Trump e Javier Milei. E restano a verbale alcuni consigli assai utili per il governo e per chiunque vorrà farne tesoro. Sul Mercosur il dibattito sembra risentire di punte ideologiche. È certamente positiva la ricerca di nuovi mercati. Ma come si possono dimenticare le esigenze di reciprocità oggetto delle richieste dei nostri agricoltori? «La ricerca di nuovi mercati diventa necessaria, e ancor più urgente, in un contesto segnato dall'introduzione di dazi da parte degli Stati Uniti e dall'accresciuta pressione competitiva della Cina sui mercati internazionali». Spesso si tende a considerare l'Unione Europea come un aggregato omogeneo e, per una presa di posizione ideologica, si assume che ciò che è positivo per la UE lo sia automaticamente per tutti i paesi membri. Ma non è così. All'interno della UE, le strutture produttive, la dinamica industriale e la specializzazione produttiva e commerciale dei paesi sono profondamente diverse. Di conseguenza, gli accordi commerciali possono risultare vantaggiosi per alcuni paesi e penalizzanti per altri. In altre parole, tali accordi non sono necessariamente a somma positiva: spesso sono a somma nulla, dove ciò che un paese guadagna viene perso da un altro. Questo è particolarmente evidente nel settore agricolo, dove Italia e Francia rischiano di perdere di più – e in misura significativa – mentre i vantaggi per Spagna e Germania sono ben noti. L'importanza strategica dell'agricoltura cresce ulteriormente alla luce della forte pressione esercitata dalle importazioni di manufatti provenienti dall'Asia. Colpire o indebolire il settore agricolo per "controbilanciare" tali effetti significherebbe compromettere diversificazione produttiva, filiere e occupazione, aggravando le fragilità strutturali dell'economia europea». E poi parliamoci chiaro. Un conto sono le agricolture di alcuni paesi basate su grandi gruppi, altro conto è il modello italiano basato su piccole e medie imprese. «Certo. È ben nota, ad esempio, la differenza tra Italia e Germania. L'agricoltura italiana riflette un modello di accumulazione fondato su qualità, differenziazione e trasformazione, mentre quella tedesca si basa su scala, standardizzazione e allevamento. Ne derivano due regimi di efficienza distinti: valore aggiunto nel caso italiano, volumi in quello tedesco. A ciò si aggiunge il fatto che la produzione agricola italiana, per conformazione territoriale e storia economica, è strutturata prevalentemente in imprese di minore scala, ma caratterizzate da una forte conoscenza accumulata nei processi produttivi. Se ragioniamo in termini di scala, è evidente che l'agricoltura italiana si troverebbe in difficoltà, ancor più nel contesto attuale segnato dall'introduzione dei dazi da parte degli Stati Uniti. Per questo è necessario introdurre misure compensative. Ma non basta. È indispensabile ripensare e rilanciare una politica industriale capace di garantire il futuro del settore agricolo. Una politica che non insegua la scala, ma rafforzi qualità, trasformazione, filiere, innovazione di processo e posizionamento sui mercati, valorizzando il vantaggio comparato dell'agricoltura italiana nella UE». Ma l'Ue che intende fare in termini di politica industriale? O non la fa o la fa male... «Per essere generosi, negli ultimi vent'anni nella UE la politica industriale è stata missing in action. Negli anni Novanta la parola "politica industriale" era di fatto impronunciabile: in una logica da Washington Consensus, la "migliore" politica industriale consisteva nel non fare nulla e nell'affidarsi al commercio internazionale. Dopo l'Inflation Reduction Act (2022), la UE ha accelerato su politiche green, energetiche e su alcuni settori strategici. Oggi, con una maggiore dose di realpolitik, queste politiche vengono parzialmente riviste, ma il processo resta lento e frammentato. La politica industriale è determinante per mantenere il welfare di cui la UE si vanta a livello internazionale. Senza aumenti sostenuti della produttività, il sistema di welfare non è sostenibile. Questo vale per l'Unione nel suo complesso, ma in modo particolare per l'Italia, che da anni opera in un contesto di produttività stagnante.» Lei dice e scrive da tempo che occorre «ripensare il modello progressista». Cosa intende? «Nell'area progressista, la preoccupazione per l'economia reale non occupa una posizione centrale nei programmi politici. Le recenti esperienze dell'America Latina, dove il ciclo politico sta cambiando radicalmente, sono indicative. Si è pensato che l'aumento della spesa pubblica, l'estensione dei diritti universali e il rafforzamento del ruolo dello Stato fossero sufficienti per costruire società più inclusive e più eguali. Così non è stato. Le variabili mancate sono state crescita, occupazione e produttività. Rinnovare l'agenda significa andare oltre al realismo magico e porre in modo chiaro le condizioni necessarie per creare reali condizioni per dare opportunità alla inclusione sociale». Ci sta dicendo che la sinistra ha perso contatto con la realtà e in particolare con la realtà dell'economia? «In parte sì. Politiche economiche orientate a crescita, occupazione, innovazione e produttività sono alla base. I diritti restano uno slogan se non si è in grado di garantire una struttura produttiva e una collocazione internazionale capaci di generare una dinamica virtuosa tra produttività, distribuzione e salari. Questo implica la capacità di governare e incentivare i mercati: regolare, ma senza eccessi. Creare spazio per nuove imprese, diversificare i settori e stimolare l'innovazione. Significa anche riconoscere che i profitti sono un incentivo, non una maledizione. Se guardiamo alla UE, il paradosso è evidente: esistono già agenzie e meccanismi avanzati per regolare l'intelligenza artificiale, ma non siamo stati capaci di far emergere imprese leader innovative nel settore. La regolamentazione ha preceduto la strategia industriale. Prima occorre incentivare la generazione di innovazione e imprese; solo dopo si può decidere se, e come, regolare». Ha un suggerimento anche per la destra? Anche per fare recuperi sociali serve la crescita economica... «Certo. Occorre innanzitutto riconoscere che una politica di bilancio che inizia a essere strutturalmente virtuosa crea le condizioni per intervenire in modo credibile su altri fronti. Ma non basta. Pensare che una politica di bilancio virtuosa, da sola, sia in grado di generare crescita è un'illusione. Senza una strategia esplicita per la crescita e la produttività, il consolidamento fiscale resta economicamente sterile. Qui si pone il nodo dell'uso delle risorse: sociale o produttivo? La distinzione è in parte fuorviante. Esistono politiche produttive con effetti sociali rilevanti e duraturi. Non solo più risorse, ma anche meno regolamentazione inutile e incentivi più chiari ed espliciti, orientati a investimenti, occupazione e innovazione». Che giudizio ha del trattamento mediatico che qui in Europa c'è verso Donald Trump? «Se mi permette, parto con una frase in spagnolo: Qué malos son los malos!!! Trump viene dipinto come il "cattivo", ma la sua politica economica non rappresenta una rottura. Prosegue, senza soluzione di continuità, linee già avviate anche dai democratici. L'Inflation Reduction Act ne è un esempio evidente: una politica industriale e commerciale chiaramente sovranista. L'attenzione si concentra sulla figura del “cattivo” per evitare di discutere ciò che accade in casa propria. I paesi che oggi protestano di più contro i dazi sono quelli che hanno accumulato per anni surplus strutturali verso gli Stati Uniti. La loro crescita è dipesa dalla capacità dell'economia americana di assorbire domanda globale. Il deficit statunitense ha funzionato come il più grande stimolo keynesiano dell'economia mondiale. Ma non è sostenibile all'infinito. Come insegna il teorema di Triffin, il paese che emette la valuta di riserva globale deve prima o poi scegliere tra fornire liquidità al sistema o preservare la fiducia nella propria moneta. A questo si aggiungono la competizione per la leadership tecnologica e la pressione di una classe media impoverita. Alla fine, come diceva negli anni Novanta il Presidente Bill Clinton: it's the economy, stupid. E si torna sempre allo stesso punto: l'economia europea deve individuare i detonatori della propria crescita. Con un mercato di oltre quattrocento milioni di persone non riusciamo a generare domanda, né a far crescere produttività e salari. Qui sta il problema. Non a caso, la distanza nel PIL pro capite tra Stati Uniti e Unione Europea si è ampliata negli ultimi vent'anni. Una situazione confermata questa settimana dai dati USA sulla crescita: il PIL è cresciuto del 4,3% nell'ultimo trimestre (in aumento rispetto al 3,8% del trimestre precedente e con un'inflazione intorno al 2,9%) e la crescita annuale potrebbe arrivare al 2,6%, tutto questo sostenuto da un consistente aumento degli investimenti, dei consumi e una forte dinamica del mercato interno». Spostiamoci in Sud America. Ha senso che la sinistra prosegua imperterrita a «fascistizzare» Milei? Ha già vinto due elezioni… «Certo, ha vinto le elezioni e anche le recenti consultazioni in cui si è rinnovata parte del Parlamento. Fascista? Come ricordava Nanni Moretti, "le parole sono importanti": lo definirei piuttosto pro-mercato e liberale, senza mezzi termini. Le due votazioni hanno confermato il sostegno all'attuale governo, e non per caso. L'ultimo governo (2019–2023) ha lasciato una situazione drammatica: crescita debole, inflazione elevata, macroeconomia instabile. Ma ciò che spesso si dimentica è che la povertà è passata dal 35,5% nel 2019 al 41,7% a fine mandato, arrivando a 19,5 milioni di persone che vivono in povertà. Il risultato è stato quello di un'espansione fiscale incoerente e di una politica monetaria priva di vincoli. Questo è stato l'esito di un governo progressista. Dunque, l'obiettivo primario – ridurre la povertà – è fallito. Si tratta oggi di fare un'autocritica e di ragionare su ciò che non ha funzionato. Tornando a Milei, ha realizzato un aggiustamento fiscale e adottato una politica monetaria restrittiva, anche in modo aggressivo. Molte persone vicine ai governi precedenti riconoscono oggi che questo intervento andava fatto prima, quando erano loro al governo. Oggi la crescita dell'Argentina è stimata attorno al 4,5% nel 2025 e al 4,0% nel 2026. Ma questo non basta. La questione centrale è quando cresceranno gli investimenti e quando si tradurranno in occupazione. La storia economica insegna che nessun paese ha raggiunto lo sviluppo senza una partecipazione attiva dello Stato: non per sostituire il mercato, ma per creare le condizioni affinché Stato e mercato, insieme, distribuiscano opportunità a tutta la popolazione».