Forse conviene dirlo subito, senza infingimenti e senza più concedere alibi: questa non è una storia su Fabrizio Corona come personaggio pittoresco, né sull'ennesimo scandalo da divorare tra un reel e una diretta notturna. È una storia su un modello, su un sistema parallelo che si regge su tre pilastri solidissimi: violazione, spettacolarizzazione, profitto. Tutto il resto — la verità, la giustizia, l'indignazione morale — è scenografia. Perché alla fine, spogliata la retorica dell'anti-sistema, tolta la posa del “coraggioso”, resta una verità semplice e brutale: a Corona interessa solo una cosa. I soldi. Una parte consistente dei suoi contenuti è a pagamento. Paghi per vedere, paghi per ascoltare, paghi per sbirciare. Il sesso, la nudità, l'umiliazione diventano strumenti commerciali. Non servono a chiarire, servono a vendere. E quando vendono bene, l'asticella si alza. Sempre. Perché il pubblico si eccita. È mercato puro, non giornalismo. È domanda e offerta, non responsabilità. In mezzo, oggi, c'è Alfonso Signorini. Colpevole o innocente, responsabile o no, rischia di diventare quasi un dettaglio. Perché la fame che si avverte non è fame di verità, ma fame di caduta. Fame di vedere il potente scivolare, perdere controllo, essere ridotto a materiale da consumo. Il punto serio, se vogliamo dirlo senza ipocrisie, è uno solo: Signorini ha usato la sua posizione di potere per promettere accesso o visibilità in cambio di qualcosa? Tutto il resto — foto nude, video intimi, scene private estrapolate — è contorno tossico. Cucina. Coreografia. Merce. (...) Coronasi vanta di conoscere la legge. Lo ripete lui, lo ripete il suo avvocato, Ivano Chiesa. “Sappiamo fin dove possiamo spingerci.” Non è rispetto delle regole: è calcolo. È lo studio del confine per aggirarlo. Le denunce per diffamazione, stalking, truffa diventano parte del personaggio. Anzi, lo rafforzano. Perché ogni limite superato alimenta la narrazione dell'eroe perseguitato. Quando poi interviene la legge — quando le forze dell'ordine sequestrano materiale diffuso illecitamente, video intimi di persone non indagate, immagini che non dovevano circolare — l'atto dovuto diventa prova del complotto. L'italiano medio non pensa: «È la legge». Pensa: «Vedi? Lo vogliono silenziare». I poteri forti. Il sistema. La censura. È su questo equivoco che Corona costruisce il suo consenso più solido. E l'asticella continua a salire. Perché più si sale, più il pubblico si eccita. (...) Da giornalista, una cosa mi è chiarissima. Fare un'inchiesta così è facile. Pubblicare telefonate rubate, mostrare foto nude, estrarre un momento privato e usarlo per ridicolizzare qualcuno davanti a una telecamera: così siamo capaci tutti. La vera difficoltà è un'altra: fare un'inchiesta rispettando le regole, verificando le fonti, separando il penalmente rilevante dal pruriginoso. Quella sì che è fatica. Quella sì che è responsabilità. E arriviamo al punto più scomodo. Il motivo per cui tutto questo funziona non è Corona. Siamo noi. Il nostro piacere nel vedere l'altro cadere. Scivolare. Rotolare nel fango. Non perché se lo meriti davvero, ma perché cadendo lui ci sembra di stare in piedi noi. È una soddisfazione breve, vigliacca, potentissima. La rivalsa dei codardi che restano muti quando il potere è all'apice e diventano feroci quando sentono odore di sangue. Corona intercetta questa pulsione e la serve pronta. (DA SUBSTACK, LETTERE DAL FAR WEST)