I primi ebrei che incontrarono i sopravvissuti alla Shoah furono i soldati della Brigata Ebraica, a Pontiggia, una ventina chilometri da Tarvisio, dove tra maggio e giugno 1945 venne allestito un campo di transito per i reduci dai campi di concentramento dell’Europa centrale e orientale. Gli ebrei che si erano arruolati nelle fila dell’8ª Armata britannica provenivano dalla Palestina: avevano combattuto in Italia nella guerra di liberazione e non sapevano con esattezza quello che era accaduto ai loro fratelli in Europa. Una conferma autorevole arriva da un libro che uscirà in Gran Bretagna a settembre, Dance of the Fire - The Jewish Brigade in WWII. Facts, Myths, Appraisal (Unicorn, pp. 382) scritto da Shlomo Shamir (1915-2009) e a cura di Yael Driver. Shamir, che dal 1929 faceva parte dell’Haganah, l’esercito clandestino ebraico nella Palestina mandato britannico, dal 1940 si era arruolato in fanteria nell’esercito inglese, già con brevetto di pilota. Aveva combattuto da ufficiale nella Brigata Ebraica, costituita nel 1944 e formata in massima parte di volontari, ed era stato testimone di fatti e avvenimenti. Sarà tra i protagonisti militari della nascita dello Stato di Israele, comandante in capo prima della Marina poi dell’Aeronautica, quindi fondatore e comandante della 7ª brigata dell’Israeli Defence Forces. Nel 1945 sarà il primo ebreo a varcare il cancello del lager di Mauthausen il 14 luglio, assieme al capitano Michael (James) Ben-Gal e a un soldato della Brigata che guidava la jeep. Per lui all’epoca nessuno nel mondo ebraico conosceva davvero la Soluzione finale, né quanti ebrei avesse raggiunto e quanti si fossero salvati. «Avevamo sentito dire che gli ebrei erano stati perseguitati e che c’erano stati campi e omicidi», scrive, aggiungendo che «è impossibile e anzi sbagliato giudicare gli eventi degli Anni ’40 dalla prospettiva del XXI secolo. In effetti, noi soldati ebrei palestinesi schierati in Europa non parlavamo di “campi di sterminio”». Quando aveva visto i primi ebrei sopravvissuti giunti al campo di transito di Pontiggia, «erano persone dall’aspetto normale, cariche di valigie e fagotti. (...) Esteriormente apparivano come persone perfettamente normali, (...) e non presentavano ferite fisiche visibili. Allo stesso modo, non si potevano vedere le loro anime ferite, il trauma dei lutti o il dolore degli abusi. Inoltre, non tutti provenivano direttamente da campi di sterminio come Auschwitz». Poi, con la missione a Mauthausen (che faceva parte dell’attività non ufficiale sotto la guida del Comando Interno), l’orrore si manifesta in tutta la sua portata. Shamir vede le baracche dove i tedeschi gestivano le camere a gas, le rocce da cui gli ebrei venivano gettati giù per assassinarli, e ne conclude che «una volta che una persona normale ha visitato un simile campo, la sua prospettiva sulla vita cambia radicalmente». In seguito si sentirà dire molte volte che era impossibile che non sapessero, e chiedere perché non avessero fatto nulla per impedire la Shoah. Lui risponderà che «all’epoca non comprendevamo appieno ciò che, anche oggi, è difficile da comprendere. (...) Solo chi aveva vissuto l’Olocausto in prima persona, o vi era stato molto vicino, avrebbe potuto comprendere il significato di ciò che stava accadendo»; aggiungendo che mai alla Brigata Ebraica era pervenuta alcuna informazione precisa sulla Shoah. E poi i nazisti sulla Soluzione Finale avevano orchestrato un’accorta campagna di inganni molto efficace «sia contro gli ebrei sia contro il mondo intero, incluso il loro stesso popolo. Auschwitz era un segreto (...) anche per gli ebrei in Europa». Come fu possibile nascondere tutto questo ce lo chiediamo ancora oggi. Allora il virus dell’antisemitismo venne rimesso in circolo nelle vene dell’Europa dal partito nazista e oggi se ne manifestano rigurgiti che qualcuno sminuisce, parifica e mistifica con etichette linguistiche. Allora il capitano di cavalleria Witold Pilecki, in missione segreta ad Auschwitz col nome di Tomasz Serafinski, fece filtrare un rapporto dettagliato finito a Londra nel marzo 1941 e ritenuto esagerato dagli inglesi. La Conferenza Wannsee del 20 gennaio 1942, dove venne programmato il genocidio di 11 milioni di ebrei europei compresi quelli dei Paesi non occupati dal Terzo Reich, era segretissima, come può esserlo un piano che prevedeva l’eliminazione industriale della razza ebraica. Gli ebrei conoscevano discriminazioni e violenze inenarrabili, eppure venivano spinti sui treni ignorando il loro destino. Non volle sapere chi lucrava e ingrassava sulla “scomparsa” degli ebrei, perché occupava la casa, si prendeva le loro attività e si impadroniva dei loro beni (banche comprese). Si voltarono dall’altra parte quelli che vedevano partire i treni pieni e ritornare vuoti: per ogni deportato le SS pagavano un regolare biglietto alle ferrovie del Reich. Sola andata. Non riuscirono a credere agli allarmi di Jan Karski né il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt e neppure il giudice della corte suprema Felix Frankfurter, anch’egli ebreo. Questo accadeva ieri. Oggi si impedisce alla Brigata Ebraica di sfilare il 25 aprile ma si sventolano le bandiere palestinesi che garrivano all’epoca dalla parte di Hitler; si vieta in alcuni locali l’ingresso agli ebrei come nella Germania nazista; li si insulta per strada; li si aggredisce in autogrill. E poi intellettuali e sedicenti tali sopravanzano Alfred Rosenberg sul Mito del XX secolo e su quello apocrifo dei Protocolli dei savi anziani di Sion. La storia non ha insegnato niente.